martedì 5 aprile 2011

VERSO LA BIO IMPRESA? CAPIRE L'AZIENDA COME SISTEMA VIVENTE PER GESTIRE IL CAMBIAMENTO ORGANIZZATIVO

Dove sta, se esiste, il confine tra vita e non-vita? È una domanda che negli ultimi decenni la riflessione scientifica e filosofica ha continuato a porsi, lontano dai clamori mediatici. Arrivando a conclusioni nuove e, in parte, sorprendenti. Una di esse è che se esiste un limite che interessa più le scienze naturali – tra materia inanimata e materia vivente – ne esiste anche uno, più sfumato, che interessa le scienze umane. È il limite tra le forme biologiche e quelle che tendono a comportarsi come tali, le strutture sociali.
In che misura queste ultime possono considerarsi davvero “viventi”? È solo una metafora, oppure, in quanto macrorganismi formati da viventi, le strutture sociali e le organizzazioni vanno considerate in qualche misura letteralmenteviventi anch’esse? A partire dagli anni Novanta si è delineato un nuovo orizzonte concettuale che tende a unificare la comprensione dei fenomeni biologici e sociali ponendo in continuità i due limiti, per così dire, inferiore e superiore: un approccio sistemico che nasce dalla comprensione sempre più approfondita dei meccanismi della vita acquisita dalla biologia a partire da quegli anni.
In particolare, l’osservazione fa tramontare definitivamente l’identificazione del vivente con il dna: secondo un’intuizione chiave che si esprime nella teoria delle “strutture autopoietiche” di Humberto Maturana e Francisco Varela, le forme e le funzioni biologiche non sono determinate da un programma genetico, ma sono proprietà che emergono dall’intera rete.
È nella dinamica dei continui flussi di materia ed energia che si trova la caratteristica base dei sistemi viventi, che per questo da Ilya Prigogine definisce strutture dissipative. In particolare, la dinamica delle strutture dissipative include lo spontaneo emergere di nuove forme di ordine. In altri termini, la creatività – la generazione di nuove forme – è una proprietà chiave di tutti i sistemi viventi.
Proprietà che emergono dalla rete, flussi di materia ed energia, emergere di forme d’ordine, creatività: tutte caratteristiche che potremmo agevolmente attribuire anche ai sistemi sociali, quindi anche alle organizzazioni, aziende incluse. Tuttavia, affinché il parallelo possa andare oltre il limite dell’analogia manca ancora un tassello decisivo. Il progresso introdotto dalla visione sistemica è abbandonare la concezione cartesiana della “cosa” (il dna) per comprendere la vita essenzialmente come “processo” (l’autopoiesi): in questa visione trova collocazione coerente una concezione anche della mente come processo
L’idea dei processi mentali era già stata sviluppata da Gregory Bateson negli anni Sessanta, ma la cosiddetta teoria di Santiago della cognizione, sviluppata da Maturana e Varela, si spinge molto oltre. L’intuizione centrale della teoria di Santiago è che la cognizione è l’attività dispiegata dalle reti viventi nei processi di autogenerazione e autoconservazione. In altre parole, il processo stesso della vita è un processo cognitivo: secondo la teoria dell’autopoiesi, un sistema vivente mantiene con il proprio ambiente interazioni ricorrenti, ciascuna delle quali innesca cambiamenti strutturali all’interno del sistema i quali, a loro volta, modificheranno il suo comportamento nelle interazioni future. Un sistema vivente è, insomma, un sistema che “impara”.
È evidente però che questo non è sufficiente per trasferire le nostre conoscenze della struttura materiale delle reti dal dominio biologico a quello sociale. Qui i nodi e i collegamenti della rete non sono più realtà puramente biochimiche. Le reti sociali sono innanzitutto reti di comunicazioni nelle quali entrano in gioco linguaggi simbolici, condizionamenti culturali, relazioni di potere e così via. Un orizzonte sistemico unificato per la comprensione dei fenomeni biologici e sociali può emergere soltanto sintetizzando i concetti della dinamica non lineare (in sostanza, le teorie della complessità) con questi diversi ambiti disciplinari.
Per riassumere questi ultimi aspetti in una prospettiva unitaria, possiamo dire che l’elemento centrale che distingue una rete sociale da una rete biologica è che la rete sociale ha un significato. Questo implica però una duplice natura delle organizzazioni umane. Da un lato, infatti, esse sono istituzioni sociali progettate per scopi specifici. Nel caso di un’azienda, per esempio, produrre valore per gli azionisti. Allo stesso tempo, esse sono comunità di persone che interagiscono l’una con l’altra costruendo relazioni, dando alle proprie attività un significato anche personale.
Un approccio innovativo per risolvere le problematiche del cambiamento organizzativo potrebbe risiedere nel comprendere i processi naturali di cambiamento che si realizzano in ogni sistema vivente. Comprendere le organizzazioni umane in termini di sistemi viventi – ossia in termini di reti complesse non lineari, come gli ecosistemi – può aiutarci a intuire più chiaramente la natura della complessità dell’odierno ambiente economico.
“I principi di organizzazione degli ecosistemi... sono identici ai principi dell’organizzazione di tutti i sistemi viventi” scrive Fritjof Capra in The Hidden Connections (2002, trad. it. La scienza della vita, Milano, Rizzoli, 2004). “Sembrerebbe quindi che la comprensione delle organizzazioni umane come sistemi viventi sia una delle sfide cruciali del nostro tempo”.
Uno dei principali ostacoli al cambiamento organizzativo è la concezione meccanicistica dell’azienda che ancora permea, spesso inconsciamente, i manager: la metafora della macchina non lascia spazio all’adattamento flessibile, all’apprendimento e all’evoluzione. Ciò che conta non è sapere se la “azienda vivente” sia solo un’utile metafora, o se invece le organizzazioni siano realmente dei sistemi viventi. Ciò che conta è che i manager imparino a pensare alle loro aziende come se si trattasse di esseri viventi. E gestirle di conseguenza, lasciando spazio a quella capacità generativa e creativa che è caratteristica intrinseca del vivente.





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